Sei vittima di stalking o di violenza domestica? Prima della denuncia puoi fare l’ammonimento.

Se sei vittima di stalking o di violenza domestica è bene sapere che, prima di proporre una denuncia-querela, innescando quindi l’attività giudiziaria e tutto quello che ne consegue, è possibile esperire un altro mezzo di tutela, istituito proprio a favore delle vittime di tali condotte persecutorie e violente, ovvero: l’ammonimento.

L’ammonimento è uno strumento di prevenzione di competenza esclusiva del Questore disciplinato dal D.L. n. 11/2009 (convertito in Legge n. 38/2009) e dal D.L. n. 93/2013: il primo si riferisce agli atti persecutori, mentre il secondo ne ha allargato l’oggetto, ricomprendendovi gli episodi di violenza domestica.

Ai sensi delle predette norme si intendono atti persecutori quelle “condotte reiterate, di minaccia o molesta tali da cagionare, nella persona offesa, un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita”. Mentre per atti di violenza domestica si intendono “uno o più atti, gravi ovvero non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra persone legate, attualmente o in passato, da un vincolo di matrimonio o da una relazione affettiva, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”, ovvero “fatti che debbano ritenersi riconducibili ai reati di percosse (art. 581 c.p.) o di lesione personale lieve (art. 582 comma 2 c.p.) consumati o tentati, commessi nell’ambito della violenza domestica.

Per richiedere l’ammonimento del responsabile di tali condotte, la vittima, salvo che abbia già presentato denuncia querela, può presentare, personalmente o per il tramite del proprio legale, richiesta di ammonimento direttamente alle Forze dell’Ordine, esponendo in maniera quanto più precisa i fatti oggetto di causa ed indicando le varie fonti di prova (documentali e/o testimoniali) a fondamento della richiesta stessa.

Successivamente, il Questore, assunte le effettive informazioni sui fatti e sentite, se indicate, le persone informate sui fatti, qualora ritenga fondata l’istanza, procederà ad ammonire oralmente il soggetto che si è reso protagonista di comportamenti persecutori, molesti e/o violenti, intimandogli di astenersi a commettere ulteriori atti nonché a tenere una condotta conforme alla legge.

Contestualmente, sono concessi al Questore vari poteri accessori: egli può disporre la sospensione o la revoca della licenza del porto d’armi, eventualmente detenuta dell’ammonito; inoltre, se l’ammonimento si fonda su fatti di violenza domestica, il Questore non solo può agire d’ufficio (ossia senza istanza della vittima) ma può anche richiedere al Prefetto di disporre la sospensione della patente di guida dell’ammonito, da uno a tre mesi.

Nel caso in cui il soggetto già ammonito dovesse persistere nel suo intento molesto e/o violento, l’autorità giudiziaria, venuta a conoscenza del protrarsi della situazione, agirà d’ufficio, pertanto senza necessità di alcuna ulteriore attività da parte della persona offesa, con conseguente aumento di pena in caso di condanna.

Concludendo, si può dire che l’ammonimento sia effettivamente un valido meccanismo di tutela che può essere esperito da tutte quelle vittime di atti persecutori o di violenza domestica, che non intendono attivare direttamente la giustizia penale, ma necessitano di salvaguardare e tutelare la propria incolumità personale.

GUIDA SOTTO L’USO DI SOSTANZE STUPEFACENTI? NO, GRAZIE!

Di recente ho assistito un giovane, neo patentato tra l’altro, che, sottoposto ad un controllo da parte delle Forze dell’ordine mentre si trovava al posto di guida della propria auto, risultava avere assunto sostanze stupefacenti.

L’autovettura, però, si trovava in sosta, all’interno di un parcheggio.

Ho allora predisposto una memoria difensiva, chiedendo al PM di volere richiedere l’archiviazione del procedimento, non potendo ritenersi configurato il reato di “guida” sotto l’uso delle sostanze stupefacenti, di cui all’art. 187 C.d.S. perché, appunto, il soggetto non era stato colto nell’atto di condurre il mezzo, nonostante si trovasse al posto di guida.

Il PM, nonostante gli scarsissimi precedenti giurisprudenziali, ha accolto la mia richiesta ed il procedimento si è felicemente concluso già in fase di indagini preliminari con un decreto di archiviazione “perché il fatto non sussiste”.

PATENTE SOSPESA A SEGUITO DI UN SINISTRO STRADALE: COSA FARE?

Stanno aumentando i casi di sospensione della patente a seguito di sinistro stradale…ultimamente più persone si sono rivolte al mio Studio perchè coinvolti in sinistri che, SEPPUR lievi, fortunatamente, per la dinamica, hanno portato all’emissione di decreti prefettizi di sospensione della patente per svariati mesi!

I destinatari di tali decreti, in tutti i casi, ne hanno ricevuto notifica parecchi mesi dopo il sinistro e si sono, quindi, ritrovati a dover consegnare la patente, entro 5 giorni, all’Organo accertatore, con la prospettiva di doverne fare a meno per l’intero periodo di sospensione.

Nei casi opportuni, in particolare per -appunto- la lievità del sinistro, sia per la dinamica che per i danni riportati, abbiamo valutato, assieme al cliente. di proporre opposizione al Giudice di Pace, argomentando in particolare -sulla base di consolidata Giurisprudenza- l’assoluta innvalidità (o illogicità) di un provvedimento di sospensione della patente previsto dal Codice della Strada a tutela della pubblica incolumità, qualora emesso ad eccessiva distanza temporale dal fatto.

Se effettivamente, infatti, il Prefetto avesse ritenuto, sulla base degli accertamenti in suo possesso, che la persona incorsa nel sinistro fosse un potenziale pericolo “alla guida”, avrebbe dovuto inibirlo tempestivamente dal circolare, proprio per cautelare efficacemente tutti gli utenti della strada.

Inoltre, l’opposizione formulata si basava sulla mancanza di elementi fondati di palese responsabilità delle persone coinvolte, al momento dell’emissione del decreto prefettizio (elemento, anche questo, richiesto dal Codice della Strada per poter gugere ad una pronuncia di sospensione della patente) ed, in particolare, sottolineava l’3ccessiva ultroneità di un periodo di sospensione di parecchi mesi.

Se, infatti, la sospensione può essere giusto rimedio e deterrente rispetto a condotte di guida effettivamente pericolose, ritengo, però, che il periodo di sospensione debba essere adeguato e parametrato al caso concreto.

Al momento, fortunatamente, le opposizioni depositate sono state accolte, con restituzione della patente.

Consiglio vivamente a chi dovesse vedersi notificare un decreto prefettizio con effetti sospensivi, di valutare assieme ad un legale di sua fiducia se sia opportuno proporre opposizione avverso lo stesso.

Conviventi more uxorio e carta di soggiorno: “ll mio partner è straniero, come può ottenere il permesso di soggiorno?”

Interessante pronuncia del Tribunale di Modena (Decreto 370/2020 del 7 febbraio 2020) che garantisce il “diritto all’unità familiare, costituzionalmente garantito” per quelle coppie, sempre di più, formate da cittadino italiano e partner extracomunitario, privo di permesso di soggiorno o con permesso in scadenza.

Si creava in questi casi un empasse nel procedimento di regolarizzazione e della convivenza e del partner straniero, perchè, anche nel caso in cui la coppia fosse unita da un regolare contratto di convivenza, l’anagrafe  non procedeva a registrare tale contratto per mancanza del requisito dell’iscrizione anagrafica previsto dall’art. 1 c. 37  della L. 76/2016 e la Questura non rilasciava il documento di soggiorno per mancanza della registrazione del contratto di convivenza, ai sensi del D. Lgs. 30/2007, artt. 3 c. 2 lett. b) ed art. 9, c. 5 5, lett. c-bis.

Il Tribunale di Modena, riconoscendo l’irreparabilità e la gravità del pregiudizio derivabile dalla possibile espulsione del partner straniero, ha ordinato al Comune competente di procedere con l’iscrizione anagrafica del partner straniero e l’annotazione del contratto di convivenza.

E’ pertanto ora possibile, per le coppie conviventi more uxorio, formate da un cittadino italiano ed uno straniero, rivolgersi ad un avvocato o ad un notaio per “sancire” la propria stabile unione in un contratto di convivenza, che l’avvocato o il notaio provvederà, nei 10 giorni successivi, ad inoltrare all’anagrafe competente chiedendo la registrazione.

Fatto ciò, il partner straniero potrà rivolgersi alla Questura per chiedere la carta di soggiorno quale familiare extra UE di cittadino italiano, ai sensi del D. lgv. 30/2007.

 

 

BANCAROTTA? NO, GRAZIE!

La resilienza del buon imprenditore alla fine premia, se supportata da una difesa mirata ed efficace.

La vicenda seguita dallo Studio Legale dell’Avvocato Annalisa Tironi trae le sue origini dalla contestazione dei reati di bancarotta fraudolenta documentale e semplice (artt. 216, co. 1 n. 2 e 217, co. 1 n. 4 ) al Presidente ed al Vice Presidente di un’azienda del modenese.

In particolare, a parere degli inquirenti, la prima figura di reato contestata consisteva nell’aver tenuto il registro dei beni ammortizzabili in modo tale da rendere impossibile la ricostruzione dei beni della società fallita; la bancarotta semplice, invero, secondo la tesi accusatoria, consisteva nell’aver aggravato il dissesto societario, astenendosi dal richiedere per tempo la dichiarazione di fallimento della società, nonostante la medesima, già da tempo, versasse in grave stato di difficoltà.

La Difesa ha rilevato (avvalendosi  di un Consulente tecnico dalla stessa nominato) che, per quanto riguarda il registro dei beni ammortizzabili, esso non appartiene all’elenco delle scritture contabili obbligatorie ai sensi dell’art. 2214 c.c., per cui la mancanza o mal tenuta dello stesso non può rappresentare elemento oggettivo del reato di bancarotta fraudolenta; ad ogni qual modo, la Difesa ha documentato come fosse stato possibile ricostruire l’andamento economico della società ed, attraverso le schede contabili della società, la consistenza patrimoniale della stessa.

In ordine al secondo punto del capo d’imputazione, la Difesa ha rilevato, anche attraverso l’interrogatorio del Presidente del Cda, attraverso l’escussione, ad indagini difensive, della responsabile amministrativa dell’azienda e del precedente legale che curava gli aspetti civilistici della società ed attraverso numerose produzioni documentali, come il “grave stato di difficoltà” in cui versava l’Azienda all’epoca incriminata, non coincidesse con un vero e proprio stato d’insolvenza, cui avrebbe dovuto far seguito l’istanza di fallimento.

Tanto emergeva dall’esame delle scritture contabili, che permetteva di posticipare, rispetto all’imputazione, in epoca assolutamente prossima all’istanza di fallimento lo stato di decozione della società.

A medesima conclusione la Difesa giungeva documentando come l’azienda poi fallita vantasse, nel periodo in cui, secondo il PM, sarebbe stata in grave difficoltà, un cospicuo portafoglio clienti ed avesse attuato precise scelte societarie per risollevare il proprio andamento; altresì, la Difesa provava come l’inesigibilità dei crediti non fosse nota al Presidente ed al Vice Presidente al momento della loro iscrizione e come gli stessi avessero cercato, anche per il tramite di garanzie personali, di ottenere dei finanziamenti per la società.

Il consulente di parte, poi, escludeva che la prosecuzione dell’attività avesse aggravato il dissesto, dimostrando invero come avesse comportato dei benefici in termini di riduzione del passivo totale della società fallita.

All’Udienza Preliminare la Difesa sceglieva di celebrare il processo con il rito abbreviato ed il Giudice accoglieva in toto la tesi difensiva, pronunciando assoluzione con formula pienaperché il fatto non sussiste”.

IL CAPO FAMIGLIA

Qualche tempo fa, in treno, ero accanto a due signori, all’apparenza amici di lunga data ed, incolpevolmente, mi sono trovata ad ascoltare quello che si dicevano.

Uno dei due raccontava all’altro che il proprio figlio era in procinto di separarsi dalla moglie e ad un tratto, nel tentativo di affermare che il figlio si era sempre comportato correttamente, sia con la moglie che con i figli, esclamava:”E’ sempre stato proprio un buon capo famiglia!”.

A sentire tali parole sono trasalita, per un attimo, quasi come se quel signore avesse detto qualcosa di sconveniente o di vietato, tanto era che non sentivo usare il termine “capo famiglia”.

Stavo per dirglielo, che la parola “capo famiglia” non è più contemplata nel nostro ordinamento, che non va bene parlare di capo e che il marito e la moglie hanno gli stessi diritti e doveri.

Ma poi ho taciuto, anche per evitare che mi apostrofassero con un meritato “Si faccia i fatti suoi!” e ho iniziato a riflettere.

Ho pensato a quanto siamo politically correct, con il nostro “potestà genitoriale”, “genitore 1” e “genitore 2”, diritto del “collocatario” e diritto “di visita”, a quanto ci riempiamo la bocca dei diritti di tutti, in particolare di quelli che fanno più scalpore, ma quanto spesso viene calpestato uno dei diritti più naturali del mondo, quello del padre.

Pare quasi che, nella foga di eliminare il capo famiglia, lo abbiamo relegato sotto il piedistallo su cui abbiamo messo  la donna, a prescindere.

A quanti padri che sono bravi padri viene ancora oggi concesso un tempo per stare con i figli che è uno scarto se paragonato a quello concesso alla madre solo perchè è la madre?

Quante madri ancora oggi usano i figli come merce di scambio per ottenere solo di più, in termini economici, dal coniuge?

Quante madri negano in tutti i modi il diritto del padre di stare con i figli, a volte anche portandoli lontano?

I casi sono tanti, anche se i magistrati pare che stiano finalmente, negli ultimi tempi, virando verso il pari collocamento dei figli (mi sto riferendo alle situazioni normali ovvio), ma la strada da percorrere è ancora lunga per poter parlare davvero di uguaglianza tra padri e madri in caso di separazione, sia in termini di tempo da poter trascorrere con i figli, sia in termini economici.

Ed è una cosa che mi fa ribollire il sangue.

Credo che sia ora che la svolta arrivi e che noi avvocati dobbiamo fare di tutto per darvi impulso, innanzitutto piantandola di prendere per oro colato tutto ciò che ci rappresentano le nostre assistite, ma valutando bene caso per caso.

Smettiamola di far si che siano le varie Erodiade, con le loro trame, a fare la storia.

 

L’OMICIDIO stradale

Chi mi conosce sa che non sto mai ferma e che adoro girare in bicicletta per spostarmi in città, credo che sia il mezzo più comodo se utilizzato con criterio (luci, casco, rispetto del codice della strada come per gli automobilisti..mi stanno sui nervi i ciclisti che girano ancora come se vivessero in un mondo senza auto e fossero  loro i padroni incontrastati delle strade-idem ovviamente per gli automobilisti che si comportano così).

Chi mi conosce sa anche che negli ultimi anni, vuoi perchè mamma, vuoi perchè avvocato, mi fa sempre più paura questa giungla che è diventata la strada e vorrei davvero che noi tutti ci dessimo una calmata, quando guidiamo, o pedaliamo, o attraversiamo…

Negli ultimi mesi, purtroppo, si sono lette molte -troppe!-notizie, in Italia, di incidenti stradali mortali, che si chiamano, in verità, se ne ricorrono le condizioni, OMICIDI stradali, il chè rende bene l’idea delle conseguenze che alcune condotte possono comportare.

E’ con paura, dovuta al duplice ruolo che chiunque di noi potrebbe rivestire, di persona offesa o di responsabile di un reato, ma anche con la speranza che la consapevolezza del rischio possa aiutare a prevenire delle tragedie, che vado a rileggere l’art. 589 bis c.p., intitolato appunto “OMICIDIO STRADALE”:

Inizia così:

“Chiunque cagiona per colpa la morte di una persona con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale è punito con la reclusione da due a sette anni” (e già questo primo comma dovrebbe farci riflettere tutti)

Poi, in ben 3 comma, prevede pene sino a dodici anni di reclusione (e l’arresto obbligatorio, nei casi più gravi!) per chi cagiona per colpa la morte di una persona ponendosi alla guida in stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psico-fisica conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope (!) .

Ancora, la medesima disposizione di legge prevede la reclusione da cinque a dieci anni per:”

  1. il conducente di un veicolo a motore che, procedendo in un centro urbano ad una  velocità pari o superiore al doppio di quella consentita e comunque non inferiore a 70 km/h, ovvero su strade extraurbane ad una velocità superiore di almeno 50 km/h rispetto a quella massima consentita, cagioni per colpa la morte di una persona (morte come conseguenza di velocità eccessiva);

2. il conducente di un veicolo a motore che, attraversando un’intersezione con il semaforo disposto al rosso ovvero circolando contromano, cagioni per colpa la morte di una persona (morte come conseguenza di attraversamento con il rosso o di circolazione contromano);

3. il conducente di un veicolo a motore che, a seguito di manovra di inversione del senso di marcia in prossimità o in corrispondenza di intersezioni, curve o dossi o a seguito di sorpasso di un altro mezzo in corrispondenza di un attraversamento pedonale o di linea continua, cagioni, per colpa, la morte di una persona (morte come conseguenza di inversioni vicino a incroci, curve o dossi o come conseguenza di sorpasso vicino a strisce pedonali o linea continua)

Sono ben specificate quindi, anche condotte di guida che, almeno per quella che è la mia esperienza, credo siano diffusissime, come il sorpassare un altro mezzo in prossimità di un attraversamento pedonale o il tenere una velocità eccessiva..penso sia importante esserne tutti consci.

Sono poi previste aggravanti, nel caso in cui le condotte suindicate siano poste in essere da chi si è posto alla guida senza patente, o con la patente sospesa o revocata o con auto propria sprovvista di assicurazione ed un consistente aumento della pena prevista per il reato più grave nel caso in cui conseguenza del reato sia la morte di più persone o molteplici morti e/o lesioni a persone.

Il penultimo comma, invece, prevede giustamente la diminuzione della pena sino alla metà, qualora l’evento non sia esclusiva conseguenza dell’azione o dell’omissione del colpevole.

Il successivo art. 589 ter c.p., prevede che, in caso di fuga del conducente, la pena sia aumentata da un terzo a due terzi (nella denegata ipotesi in cui si verifichi un incidente stradale, è non solo doveroso ma conveniente fermarsi e collaborare quanto più possibile).

Le medesime previsioni, seppur con pene diverse, sono riportate agli artt. 590 bis e 590 ter c.p. che prevedono il reato di LESIONI personali STRADALI gravi o gravissime e di fuga del conducente nel caso di lesioni personali stradali.

Il reato di LESIONI STRADALI ricorre ovviamente quando conseguenza delle condotte suindicate non è la morte di una (o più ) persone, ma le lesioni gravi o gravissime ad una o più persone (in questo caso non è previsto l’arresto obbligatorio, ma solo facoltativo).

Credo che sia molto importante ricordare anche che l’art. 222 del Codice della Strada prevede che il Giudice, qualora emetta sentenza di condanna o di patteggiamento per il reato di omicidio stradale o lesioni personali stradali, disponga altresì la revoca della patente (comma 2) e il condannato non potrà conseguirne una nuova prima che siano decorsi 5 anni o fino a 12 anni nei casi più gravi (comma 3 bis).

Infine, per il reato di omicidio stradale, il termine di prescrizione è raddoppiato.

Mettiamoci in strada consapevoli di quello che facciamo (e facciamo i debiti scongiuri!).

SOCIAL NETWORKS..che RISCHI CORRO?

Mi piacerebbe che si utilizzassero i social network con minore leggerezza, perchè molti utilizzatori non sanno di essere esposti a rischi o di porre in essere delle condotte che potrebbero configurare un reato o, ancora, di essere possibile vittima di un reato.

I reati “social” più frequenti, di cui spesso ci si occupa nelle aule di Giustizia, sono quello di sostituzione di persona e di diffamazione on line.

Con riferimento al primo, l’art. 494 c.p. punisce il comportamento di crea un profilo falso, spacciandosi per persona diversa ed intrattenendo conversazioni e corrispondenza telematica ed informatica con altre persone. 

Per integrare il reato, la norma richiede il dolo specifico, cioè la consapevolezza di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non soltanto di tipo economico o di arrecare ad altri un danno.

Può costituire reato, pertanto, l’ingannare gli altri utenti sulla propria identità o professione o utilizzare simboli o nickname per rappresentare una realtà diversa.

La fattispecie di diffamazione on line (art. 595 c.3 c.p.), invece, punisce la condotta di chi lede l’onore ed il decoro di un’altra persona, attraverso i social, ad esempio scrivendo frasi offensive, pubblicando foto pregiudizievoli per il soggetto ritratto o diffondendo notizie denigratorie.

Ai fini della sussistenza del reato, la comunicazione deve essere rivolta a più persone, per cui non si configurerà il reato se, ad esempio, l’offesa avviene tramite messaggio privato nella chat con un’altra persona; inoltre, la persona cui l’offesa è diretta deve essere assente, cioè non deve percepire direttamente il contenuto lesivo della comunicazione.

Il reato è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni o con la multa non inferiore ad € 516,00.

Veramente raccomando, quindi, maggiore prudenza nell’utilizzo dei social ed, altresì, maggiore controllo nei confronti dell’utilizzo che anche i minori, spesso esposti alle suindicate problematiche, ne fanno.

 

Non sono sposato, ma convivente, che diritti ho?

Capita sempre più spesso che le coppie scelgano di andare a convivere e, statisticamente, si celebrano meno matrimoni, sia civili che religiosi.

Ciò ha comportato la necessità di regolarizzare le tante unioni di fatto, onde evitare che gli interessati non vedano riconosciuti i diritti reciproci della coppia, come ad esempio il diritto a ricevere informazioni in caso di malattia del convivente o il diritto di accedere al luogo di cura del convivente (e sembra poco?!).

Con la Legge 76/2016 è stata data alle c.d. coppie di fatto, cioè a quelle coppie nelle quali i soggetti non sono uniti da alcun legame di parentela, matrimonio o unione civile, la possibilità di regolare i loro rapporti economici e giuridici.

Il contratto di convivenza non è obbligatorio, ma se stipulato formalizza il rapporto davanti alla Legge, dando vita ad una serie di diritti in capo ai soggetti contraenti, come ad es. diritto di visita, assistenza ed accesso alle informazioni in caso di malattia, diritto a vivere nella residenza comune dopo l’eventuale morte del partner proprietario dell’immobile, diritto di scegliere l’eventuale regime patrimoniale della comunione dei beni, diritto di regolare le modalità di contribuzione economica con riferimento alle necessità della famiglia.

Per quanto riguarda la procedura, il contratto di convivenza sottoscritto dalle parti viene presentato agli Uffici dell’Anagrafe del Comune di residenza presso cui viene registrato; in tal modo, i conviventi potranno ottenere il Certificato dello Stato di famiglia oltre a veder tutelati i propri diritti come sopra descritti.

Si ricorda che il contratto non può essere sottoposto a termine o condizione e può essere sciolto dietro richiesta da parte di almeno uno degli interessati.

È consigliabile rivolgersi ad un Avvocato per ricevere l’adeguata assistenza nella stipulazione degli accordi e del contratto di convivenza.

DIRITTI..ma anche DOVERI!

Si parla sempre di diritti oggi e, a mio parere, spesso anche con una leggerezza che comporta che il “mio” diritto spesso non è altro che il calpestamento del “tuo”, di diritto.

Mi piacerebbe che si rileggessero i diritti sanciti nella nostra Costituzione, che sono bellissimi, ma non solo.

Mi piacerebbe che si rileggessero bene gli articoli 2 e 4 della nostra Costituzione, che se è vero che sanciscono l’inviolabilità dei diritti ivi contemplati e riconoscono il diritto al lavoro per tutti, prevedono però anche che ognuno adempia ai “DOVERI INDEROGABILI di SOLIDARIETA’ politica, economica e sociale” (art. 2) e che ognuno abbia “il DOVERE di svolgere , secondo la propria possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale dell società” (art. 4)

Ricordiamocelo.

Giusto parlare di diritti e battersi per i diritti di tutti, ma non si può prescindere dai doveri richiesti a ciascuno di noi, ogni giorno.

Bancarotta fraudolenta: no all’inabilitazione per 10 anni

La pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, prevista all’art. 216 della Legge Fallimentare, ha subito un netto ridimensionamento da parte della Corte Costituzionale prima e delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione poi.

L’assunto legislativo che la condanna per bancarotta fraudolenta (in qualsiasi forma contestata) comporti la predetta pena accessoria per la durata di dieci è stato reinterpretato al fine di permettere al giudice di cognizione di stabilirne la quantità: non più “per la durata di dieci anni”, ma “fino a dieci anni”.

Infatti la la legge quando stabilisce sanzioni fisse, senza possibilità di valutazione giudiziale, è perché le collega a fattispecie penali gravi e le cui condotte tipizzate sono chiare ed evidenti, pertanto è possibile sanzionare le stesse in misura fissa.

Ciò, finalmente, non è più possibile per le multiple e sfaccettate tipologie di condotta di bancarotta fraudolenta, le quali soggiaceranno ad una pena accessoria interdittiva, ma la cui durata verrà valutata dal giudice di merito ai sensi dell’art. 133 c.p., che prevede elementi in base ai quali il Giudice possa valutare la gravità, o meno, del reato e, quindi, decidere una pena adeguata.

DROGHE LEGGERE (e non): cosa succede se mi trovano con della droga?

Spesso le persone si chiedono: “Se faccio uso di droga, commetto reato?”

 No, il consumo di sostanza stupefacente non costituisce più reato dal 1993, anno in cui ci fu il referendum che ha abrogato il divieto di uso personale.

L’art. 73 del D.P.R. 309 /90 stabilisce che per la configurabilità del reato e, quindi, per essere puniti, è necessario dimostrare che la sostanza è destinata a terzi; l’onere della prova grava in capo all’Accusa.

Gli elementi probatori, che devono essere valutati complessivamente, in ordine alla destinazione della sostanza stupefacente sono costituiti dalla quantità e qualità della sostanza, dall’eventuale stato di tossicodipendenza del soggetto, dalle condizioni economiche e reddituali, dalle modalità di custodia della sostanza ( ad es. se contenuta in un unico sacchetto o in più sacchetti), dal rinvenimento di strumenti da taglio o altra strumentazione ( es. bilancino).

L’art. 73 sanziona una pluralità di condotte ( coltivazione, produzione, vendita, cessione, importazione, esportazione, detenzione), punendo OGNI comportamento che in qualunque modo si possa collegare al traffico di stupefacente. 

Costituisce reato la cessione, anche gratuita, di sostanza stupefacente oltre ad ogni altra ipotesi che integra le condotte di cui all’art. 73, nonché la valutazione probatoria di tutti i parametri suindicati con riferimento alla destinazione della sostanza.

La normativa in esame, in virtù della modifica intervenuta, ha previsto un’ipotesi lieve al comma 5, che costituisce un’autonoma fattispecie di reato.

Ciò che rileva ai fini della configurabilità dell’ipotesi lieve non è solo la qualità della sostanza (ad esempio se trattasi di droghe leggere -es. marijuana- o pesanti, che differiscono per il trattamento sanzionatorio – appunto più mite – per le prime), ma rileva la quantità e il “mercato di insistenza”, circostanze che complessivamente valutate possono assumere connotazione dirimente.

Dal punto di vista processuale, si procede a perquisizione quando vi è fondato motivo di ritenere che possano essere rinvenute sostanze stupefacenti sia sulla persona che in qualsiasi altro luogo (abitazione, auto ..) e gli Agenti possono procedere anche senza mandato emesso dall’A.G.

Pertanto, è consigliabile rivolgersi al proprio legale al fine di far evidenziare elementi probatori a discarico ( ad es. consegna spontanea della sostanza), soprattutto se trattasi di mero consumatore di sostanza stupefacente.

Attenzione che se l’uso personale di droghe non costituisce reato, tuttavia si può incorrere in sanzioni amministrative quali la sospensione o revoca della patente, ad esempio, se si viene sorpresi alla guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.

 

Resistenza a Pubblico Ufficiale, anzi a PIU’ Pubblici Ufficiali

Iniziare dalla fine per capire l’inizio.

In base ad una recente sentenza delle Sezioni Unite (sent. 22 febbraio 2018 (dep. 24 settembre 2018), n. 40981) la condotta di chi resiste a PIU’ pubblici ufficiali con UNICA azione configura un concorso formale di reati (unica azione, più reati ai sensi dell’art. 81, co. 1, c.p.). 

Secondo la Suprema Corte, quindi, vero è che l’art. 337 c.p. tutela la Pubblica Amministrazione, ma vero è anche che la medesima disposizione di legge tutela i singoli agenti, che sono la rappresentazione fisica della Pubblica Amministrazione (il “braccio” volgarmente).

Gli Ermellini ritengono che in caso di resistenza a Pubblico Ufficiale non venga lesa e danneggiata solo la Pubblica Amministrazione, ma, anche, e soprattutto, l’individualità degli agenti operanti, da intendersi come portatori di interessi specifici, tanto pubblici, quanto privati.

Le Sezioni Unite, nella sentenza predetta, sposano, pertanto, tra le precedenti interpretazioni dei Giudici di merito, quella estensiva, secondo la quale, nel caso di resistenza a più pubblici ufficiali in un unico momento temporale, si configura un concorso formale di reati, a seconda di quanti siano gli operatori presenti ed osteggiati con la condotta.

Parte della Giurisprudenza precedente alla suindicata pronuncia a Sezioni Unite invero, considerando la Pubblica Amministrazione quale Unica persona offesa dal reato di cui all’art. 337 c.p., riteneva sussistente, un unico reato, nonostante la molteplicità di Agenti.

Giova ricordare che, nel caso in cui, dalla medesima condotta, derivino lesioni o minacce a danno  degli agenti, verranno, altresì, contestati, a chi si è reso responsabile di resistenza a Pubblico Ufficiale, ulteriori reati.

E allora smettiamola di parlare di Giusto Processo!

E allora smettiamola di parlare di Giusto processo e di equiparabilità delle indagini svolte dal difensore rispetto a quelle svolte dal PM, perchè non è vero!

Nella pratica non è cosi, noi avvocati ci affanniamo in certi casi a ricercare e raccogliere elementi di prova a favore dei nostri assistiti, chiamiamo, riceviamo, verbalizziamo, andiamo a vedere luoghi e strumenti e tragitti e poi?!

Poi -spesso- la genuinità di quanto raccolto da noi è messa in discussione, così, arbitrariamente, mentre striminziti ed interpretabili – a volte- verbali di PG assurgono al rango di prova -dell’accusa- anche quando non è così, anche quando non c’è scritto nulla  o addirittura provano il contrario.

Per non parlare di quando le indagini difensive dell’avvocato vengono bellamente ignorate, alla faccia dell’obbligo -per il Giudice-di enunciare le ragioni per le quali ritiene non attendibili le prove contrarie (art. 546 c.p.p.)

Che frustrazione per la difesa!

Perchè se è la Costituzione -addirittura!- che prevede il Giusto processo (art. 111)?  Perchè se le garanzie difensive dell’imputato dovrebbero essere rispettate e la decisione affidata ad un Giudice assolutamente super partes?

Suvvia, è dal 2000 che è prevista la possibilità, per il difensore, di svolgere indagini difensive….quanto tempo deve passare, ancora, in Italia, perchè le indagini dell’avvocato vengano davvero considerate e valutate al pari di quelle del P.M.?

Quanto deve passare ancora perchè anche il rifiuto, che spesso riceviamo, di poter svolere alcune indagini (in particolare in relazione a documentazione custodita presso enti pubblici o istituti di credito) venga vagliato dal Giudice e, ancor prima, serva di sollecito al Pm per svolgere lui stesso quelle indagini?!

Sennò sembra di combattere contro i mulini a vento..si suda, si corre e ci si affanna, ma invano.

Si, sono arrabbiata oggi.

 

La ruota (che gira)

E poi arriva il sorriso ed il grazie di qualcuno che è stato contento per quello che hai fatto e allora senti che la fatica ha avuto un senso e che questa, nonostante le rotture di scatole -che tanto tutti i mestieri hanno-, rimane una professione che VALE la pena esercitare.